SOCIOLOGIA: LA NASCITA DELL'INDUSTRIA CULTURALE

 LA NASCITA DELL'INDUSTRIA CULTURALE


Con l'espressione industria culturale indichiamo il complesso dei soggetti e delle attività economiche che, nella società industriale avanzata, si occupano della produzione e della distribuzione di beni e servizi culturali. L'industria culturale copre dunque ambiti della vita sociale che appartengono alla nostra percezione abituale della realtà e con i quali, grazie a determinate esperienze di consumo, veniamo frequentemente in contatto: il mondo dell'editoria, le case discografiche, l'industria cinematografica, i mezzi di comunicazione di massa.

Ma per comprendere pienamente il significato di questo complesso fenomeno sociale occorre fare un passo indietro per ripercorrerne brevemente il processo di affermazione e di sviluppo.

Parole come "industria" e "cultura" ricorrono con una certa frequenza nei nostri discorsi, e con un significato tutto sommato piuttosto definito:

> quando parliamo di 'industria" abbiamo in mente il complesso delle attività produttive che trasformano le materie prime in merci di consumo. Si tratta di un fenomeno che, a partire dal XVIII secolo circa, avviene grazie all'investimento di ingenti capitali e all'uso di macchinari che permettono la realizzazione in serie di una grande quantità di prodotti;  

> quanto al termine "cultura", al di là della rilettura articolata che ne ha dato l'antropologia, l'accezione principale con cui esso ricorre nel linguaggio quotidiano è quella di tipo classico-umanistico: cultura è il complesso delle esperienze intellettuali di una civiltà, depositato nelle opere letterarie, musicali, artistiche, nelle teorie scientifiche e filosofiche, e in generale nell'insieme di idee e simboli che formano l'universo del sapere.


Su questi presupposti, l'accostamento dei due termini nell'espressione "industria culturale" può apparire contraddittorio. 
La produzione industriale è per definizione seriale e standardizzata, mentre tendiamo a rappresentarci le creazioni della cultura come uniche e originali, legate all'individualità dei loro autori. 
Non a caso l'idea dell'artista come "creatore" è figlia della filosofia romantica, che agli inizi dell'Ottocento, cioè proprio nel momento in cui l'industrializzazione si stava affermando nella società occidentale, sancisce simbolicamente la distanza tra i prodotti della cultura e dell'ingegno e quelli delle macchine.
Tuttavia, proprio la diffusione della civiltà industriale e la progressiva "colonizzazione che essa ha operato in ogni ambito della vita sociale hanno finito per mettere in crisi nei secoli successivi, l'idea di una separazione netta tra produzione tecnica e creazione culturale.

Il processo di industrializzazione ha agito sulla cultura per molte vie:
>sia direttamente, attraverso le innovazioni tecnologiche che hanno permesso una più rapida realizzazione e distribuzione dei prodotti culturali;
>sia indirettamente, creando quelle condizioni, come la nascita della civiltà urbana e del tempo libero e, soprattutto, l'affermarsi dell'economia di mercato, che hanno trasformato profondamente la natura delle produzioni culturali, obbligando gli studiosi a riflettere sul significato che nella società contemporanea assumono il 'fare cultura" e, in generale, tutte le attività intellettuali.


I PRODROMI: DAI MANOSCRITTI MEDIEVALI ALLE "GAZZETTE" DEL SETTECENTO


In un certo senso una tecnologia al servizio dei beni culturali, sia per quanto riguarda la loro produzione, sia per quanto riguarda la loro distribuzione, è sempre esistita.

Il paziente lavoro di trascrizione eseguito nel Medioevo dai monaci benedettini, che ha permesso di conservare e tramandare molte opere letterarie dell'antichità, ne costituisce un rudimentale esempio.

Tuttavia, è solo con l'invenzione della stampa che si apre una nuova era: la stampa a caratteri mobili, ovvero diversamente componibili, tradizionalmente fatta risalire al tedesco Johann Gutenberg, standardizza la tecnica di riproduzione della parola scritta, inaugurando una nuova modalità di realizzazione dei libri e, quindi, un'epoca di maggiore circolazione dei contenuti culturali all'interno della società. Il nascere della pagina stampata ha infatti permesso di pubblicare più rapidamente e in quantità maggiore testi di qualsiasi natura, avvicinando così alla lettura fasce sempre più ampie di popolazione.

Parallelamente a questa rivoluzione tecnologica, se ne verifica un'altra di carattere teorico-simbolico, e cioè il parziale mutamento del significato del "libro", che da testo specialistico, spesso destinato a una cerchia ristretta di intenditori — gli scritti dei filosofi antichi e medievali. Per questa via, il rapporto tra scrittore e lettore di libri assume progressivamente la configurazione che ha ancora oggi: una ristretta cerchia di autori che si rivolge a una massa di fruitori via via più estesa e indifferenziata.

Con la stampa, inoltre, la sorte del testo si lega sempre più strettamente alle richieste della realtà sociale emergente: i libri cominciano a essere scritti e riprodotti non solo al fine di consegnare ai posteri il sapere della tradizione, ma anche per diffondere idee e conoscenze legate ai bisogni del tempo presente.

La necessità di una parola scritta legata alla concretezza e all'attualità si fa più evidente con la nascita, agli inizi del Settecento, degli "antenati" dei moderni giornali. Apparsi originariamente in Inghilterra, ma ben presto diffusisi anche nel resto dell'Europa (in Italia presero il nome di "gazzette"), erano all'inizio prodotti di nicchia, idealmente rivolti a un'élite ricca e colta, per la quale costituivano uno strumento di informazione sociale, politica e culturale: non a caso si ricevevano a casa, previa sottoscrizione di un abbonamento, poiché non esisteva una rete di distribuzione analoga a quella degli odierni periodici o quotidiani che possono essere acquistati presso numerosi punti vendita. 

Per giungere a questo traguardo si sarebbe dovuto attendere il secolo successivo, quando in un altro contesto geografico e storico-sociale, ovvero negli Stati uniti, il giornale avrebbe cambiato significato e funzioni, trasformandosi in un trampolino di lancio per nuove forme di produzione e di trasmissione di contenuti culturali.


LA STAMPA POPOLARE

Il 3 settembre 1833, a New York, una nuova presenza si aggira per le strade della città. Sono gli "strilloni", ragazzetti incaricati di vendere ai passanti il "New York Sun", edito da Benjamin Henry Day, Il prezzo modico (1 penny ogni copia) e lo slogan accattivante con cui il giornale si presenta, «it shines for all» ("splende per tutti) mostrano la chiara volontà dell'editore di raggiungere il pubblico più ampio possibile Siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione culturale.

Il 'New York Sun" si distingueva dalle pubblicazioni fino ad allora esistenti non solo per la modalità di distribuzione e per il prezzo ridotto, ma anche e soprattutto per i contenuti proposti: articoli di cronaca locale, resoconti di delitti e di eventi scandalistici, notizie sensazionali: tutti questi ingredienti, se sconcertavano i tradizionali lettori di quotidiani, allettavano invece una nuova fascia di utenti, composta da persone che nel foglio di giornale cercavano un semplice mezzo di intrattenimento e di svago.

Il modello della stampa popolare fece ben presto la sua comparsa anche oltre oceano. Nel 1836, a Parigi, il giornalista e uomo politico Émile de Girardin fondò un nuovo giornale, "La Presse", di cui riuscì a dimezzare il prezzo di abbonamento con un espediente destinato ad avere nei decenni successivi un grande successo: l'inserzione di annunci pubblicitari.

 A un'analisi attenta risulta evidente come non si trattasse di una semplice "trovata" di un astuto imprenditore per aumentare le vendite, ma si stesse in realtà inaugurando un nuovo modo di fare giornalismo.  

Legando il quotidiano al pubblico da un lato, e al mercato dall'altro, Girardin lo stava trasformando da mezzo di informazione e di discussione di idee a vero e proprio "prodotto di consumo" .

La trasformazione del giornale in un bene di consumo perfettamente inserito nelle dinamiche di mercato diede il via alla nascita di nuove modalità di produzione e di diffusione della cultura. Tra queste ricordiamo il romanzo d'appendice, o feuilleton, inserto allegato alle pagine del quotidiano e contenente brani di opere narrative, che venivano così divulgate presso la popolazione.

 In un primo momento ci si limitò a presentare, un pezzo per volta, romanzi già esistenti, ma ben presto invalse un'abitudine diversa: gli scrittori cominciarono a comporre opere appositamente per i giornali, scrivendo di giorno in giorno la puntata da pubblicare. L'inedito connubio tra giornalismo e letteratura inaugurò così un nuovo genere narrativo, basato su alcuni canoni ben precisi: ogni puntata doveva ricollegarsi a quella precedente, cioè presentare situazioni e personaggi ricorrenti, ma nel contempo introdurre elementi di innovazione nell'intreccio, e il suo epilogo doveva invogliare il lettore a conoscere il contenuto della puntata successiva.

La serialità della produzione industriale si trasferiva così all'interno della creazione culturale, come suo elemento costituivo. E proprio questo elemento, unito alla sinergia instaurata tra due diversi apparati di comunicazione sociale (il giornale e l'opera letteraria), fanno del feuilleton un vero e proprio prodotto dell'industria culturale, irriducibile alle usuali opere narrative della tradizione letteraria.

La letteratura d'appendice aveva i suoi leit-motiv: passioni e intrighi amorosi, storie di vizio e di degradazione, contrasti tra l'aspetto esteriore della vita urbana e le sordide vicende dei quartieri più sconosciuti.

Da un punto di vista ideologico, questi temi proponevano spesso i valori piccolo-borghesi della società da cui scaturivano: il trionfo del bene sul male, il populismo retorico, il riscatto da situazioni di povertà e di ingiustizia grazie al recupero, da parte di un "eroe" o di una "eroina", della propria identità.


IL FUMETTO

La stampa tardottocentesca è anche il veicolo di una nuova forma di comunicazione, destinata a diventare negli anni successivi un prodotto chiave dell'industria culturale: il fumetto.

Grazie all'intraprendenza di un direttore cli giornali statunitense, Joseph Pulitzer, intenzionato a incrementare le vendite domenicali del quotidiano "New York World", il 5 maggio 1895 un giovane disegnatore dell'Ohio, Richard Outcault, presenta per la prima volta una serie di storielle umoristiche ambientate in un vicolo degli slums newyorkesi. Il personaggio principale dei vari racconti è The Yellow Kid, un buffo ragazzino vestito con un lungo camicione giallo, sul quale sono riportate frasi e battute relative alle vicende narrate, che solo in un secondo tempo il disegnatore affiderà ai balloons, cioè alle caratteristiche "nuvolette".

 Il successo del Bambino Giallo sul "New York World” spinge le testate concorrenti a organizzarsi, e ben presto la pratica delle sunday pages, ovvero dei supplementi a domenicali sui quali vengono pubblicate le storielle, diventa un fenomeno diffuso su molti quotidiani. In seguito, ovvero nei primi anni del secolo successivo, le pubblicazioni divengono giornaliere, pur presentandosi nel più modesto formato delle strisce, strips, e restando comunque il supplemento di altri prodotti editoriali, con intenti prevalentemente umoristici e satirici. 

Dalla matita di Outcault e di altri artisti nascono così nuovi personaggi, destinati a diventare dei veri e propri characters, ossia dei "tipi" caratterizzati con precisione sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista psicologico. Parallelamente si affermano nuovi ambiti di comicità: dal mondo degli slums ancora presente in “Happy Hooligan” di Frederick Opper si passa al più rassicurante contesto familiare e alle comuni situazioni che lo caratterizzano: le marachelle dei bambini, le scaramucce tra coniugi. Compaiono anche le prime storie interpretate da animali umanizzati, filone destinato ad avere in seguito un grande successo grazie all'opera della Disney.

Una data importante per la diffusione del fumetto è rappresentata dal 1915, anno in cui nascono le prime syndicate, cioè le agenzie finalizzate alla commercializzazione dei comics, che assumono la proprietà di storie e personaggi, sottraendone la gestione alla stampa quotidiana. A partire da questa data il fumetto diventa un medium autonomo, con importanti conseguenze per la sua stessa identità. Da un lato, infatti, le strisce perdono la loro connotazione prettamente comica per avventurarsi su nuovi filoni: avventuroso, poliziesco, fantascientifico ecc. Dall'altro, si assiste a una progressiva differenziazione dei target di riferimento: mentre le prime vignette non avevano un pubblico specifico anche se, comparendo sui giornali, si presumevano rivolte principalmente a lettori adulti -, ora va gradualmente nascendo una produzione diversificata a seconda di età, status e condizione. Alla fine degli anni Venti del Novecento, con la nascita dei comicbook, il nuovo medium è ormai una realtà consolidata, che si andrà progressivamente affermando anche al di fuori degli Stati Uniti. 


LA FOTOGRAFIA: UN NUOVO "OCCHIO" SUL MONDO

Già negli anni Venti dell'Ottocento, lo scienziato francese Joseph Nicéphore Niépce inizia i suoi esperimenti sulla possibilità di imprimere immagini su una lastra sfruttando solo la luce, senza ricorrere a un'incisione. Da questi studi nascerà una delle invenzioni più stupefacenti della storia umana: la fotografia.


In questa sede, della fotografia non ci interessa tanto l'evoluzione tecnologica, di cui infatti non tratteremo, ma piuttosto gli effetti che l'uso di questa tecnica produsse in termini di cultura e di pratiche sociali. Addentriamoci allora in questo ambito di discorso.

La fotografia nasce inizialmente come strumento di raffigurazione di paesaggi, soprattutto urbani, e di strutture architettoniche. Con il tempo, però, essa finisce per ritrarre anche soggetti umani. Fotografare e farsi fotografare diventano modi per realizzare altrettante modalità di vita sociale: davanti all'obiettivo sfilano intere famiglie, ma anche singoli individui di varie condizioni sociali che sperimentano per la prima volta l'onore del "ritratto" e persone che vengono colte nello svolgimento delle loro professioni. 

In un contesto storico-sociale caratterizzato da frequenti movimenti migratori e dalla frammentazione dei nuclei familiari, l'immagine fotografica diventa così il simbolo del mantenimento dei legami affettivi che uniscono le persone.

Anche in questi usi apparentemente intimi, personali, la fotografia è però un'immagine pubblica, di rappresentanza sociale: "cristallizza" le persone così come esse - o il fotografo per loro — desiderano venire percepite, ricordate, considerate.

La fotografia irromperà con prepotenza in tutti gli ambiti della vita sociale: trasformerà le pagine dei giornali e la stessa professione giornalistica, modificherà le pratiche del viaggio e del turismo, presterà i suoi servigi alla scienza, alla politica, all'economia, alla giustizia. Le immagini stampate diverranno a pieno titolo dei documenti Utilizzabili dagli storici e dai sociologi per le loro ricerche.


IL CINEMA: UNA NUOVA ARTE

La parola "cinematografia" significa letteralmente "scrittura del movimento" (dal greco kinema o kfnesis, "movimento", e grafé o graffa, "scrittura"). In effetti, se ci pensate, giornali, libri, illustrazioni e fotografie "abitano", al di là delle loro differenze, una dimensione comune, che è quella dell'"immobilità". Essi, cioè, presuppongono in chi li utilizza la capacità di fare astrazione dal movimento reale della vita per concentrarsi su un contenuto fissato una volta per sempre in parole o immagini.

Sotto questo punto di vista, la nascita del cinema rappresentò una decisa innovazione Per dirla con le parole del filosofo ungherese Gyôrgy Lukâcs: «nel linguaggio cinematografico la cultura ottocentesca trovò la più spinta e sfrenata dinamicità delle forme, la completa animazione e vitalizzazione dello sfondo, della natura, degli "interni", delle piante e degli animali».

Al cinema, in un certo senso, la società di fine secolo affidò il compito di rappresentare quella condizione di "mobilità" che il sociologo tedesco Georg Simmel riconosceva come costitutiva dell'uomo metropolitano, sottoposto al rapido e ininterrotto mutare delle stimolazioni sensoriali.

Come si sia giunti alla tecnica cinematografica è noto: furono i fratelli Auguste e Louis Lumière, negli anni Novanta dell'Ottocento, a creare i primi i apparecchi in grado di trascinare pellicole contenenti una serie di fotogrammi e di proiettarli in rapida successione su uno schermo bianco, in modo da creare l’illusione del movimento.

I fratelli Lumière, non colsero l'immenso potenziale della loro invenzione, limitandosi a impiegarla, seppur in pubblico, per scopi puramente documentaristici. 

L'utilizzo del cinema come strumento di comunicazione e di intrattenimento sociale nacque grazie all'opera di due figure pionieri: George Melies in Francia e David Griffith negli Stati Uniti. Con il primo la ripresa cinematografica cessò di essere mera documentazione dell'esistente per diventare messa in scena di situazioni fantastiche. 

A Griffith dobbiamo la "grammatica" del cinema che noi conosciamo e la consapevolezza del potenziale ideologico e pedagogico-sociale del nuovo strumento: il suo lungometraggio "La nascita di una nazione" è una vera celebrazione della storia degli Stati Uniti, di cui il regista giustifica gli aspetti più discutibili, come la discriminazione nei confronti delle minoranze razziali. 

Con Méliès e Griffith il cinema divenne una vera e propria forma di spettacolo, cioè di "ricreazione" della realtà attraverso la sua messa in scena, in quanto la tecnica di ripresa e di proiezione cinematografica offriva risorse espressive fino a quel momento sconosciute: cambiando inquadratura, ad esempio, si potevano avvicinare o allontanare artificialmente gli oggetti, creando così l'illusione di situazioni differenti e diversamente interpretabili. 

Lo spettacolo cinematografico si trasformò fin da subito in una forma di intrattenimento a buon mercato, accessibile anche alle classi popolari: nickelodeon, questo, negli Stati uniti, era il nome delle prime, piccole sale cinematografiche di quartiere, cosi chiamate perché il prezzo di entrata era di un solo nichelino. Forse per questo motivo la cultura "alta" guardò al cinema con una certa sufficienza, se non con disprezzo: «divertimento da Iloti», così lo bollò lo scrittore francese Georges Duhamel, riferendosi ai noti schiavi spartani a cui toccavano i lavori più umili e pesanti, mentre il conterraneo Anatole France lo accusò di «materia_ lizzare il peggior ideale popolare».


INDUSTRIA CINEMATOGRAFICA

Il mondo imprenditoriale fiutò subito le possibilità di enorme guadagno legate al cinema e in breve tempo il ruolo del produttore divenne preponderante rispetto a quello dello stesso regista.

Fondata nel 1896 da Charles Pathé, in Francia nacque la casa di produzione Pathé-Frères, che nei primi anni del Novecento si distinse non solo per la realizzazione di ottimi cortometraggi, ma anche per un'opera generale di promozione della nuova arte attraverso il coinvolgimento, nella progettazione dei lavori, di illustri personaggi della letteratura e della cultura.

 Nello stesso periodo, negli Stati uniti, l'industria del cinema tardava a decollare a causa di una serie di controversie giudiziarie legate al diritto dello sfruttamento della nuova invenzione. Negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, tuttavia, risolte definitivamente le questioni legali, l'industria cinematografica statunitense si sviluppò in modo vertiginoso, affermando in breve tempo la sua egemonia nel mondo, anche a causa, a onor del vero, delle difficoltà attraversate dall'Europa nel periodo postbellico.

Il centro della produzione cinematografica statunitense divenne la California, scelta per le sue condizioni climatiche e per la varietà dei paesaggi, che si prestavano ottimamente per girare gli "esterni" dei film. Il piccolo villaggio di Hollywood divenne in breve tempo la capitale del cinema e i suoi prodotti furono esportati anche al di là dei confini del continente americano. È curioso, a questo proposito, notare come ciò che a noi oggi sembra una carenza dei primi film abbia invece in qualche modo contribuito, all'inizio, a costruire l'universalità del linguaggio cinematografico, non vincolato ad alcun idioma particolare.


LA MUSICA: COME "CATTURARLA"

 Nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, all'interno di una riflessione sul ruolo dell'arte nell'esistenza umana, dedicò particolare attenzione alla musica, che egli riteneva capace di rivelare «l'essenza intima del mondo». La posizione di Schopenhauer esprime in qualche modo la suggestione esercitata sugli esseri umani dal suono, generata soprattutto dalla sua impalpabilità: diversamente da una poesia o da un dipinto, che esistono concretamente (come pagina scritta o come tela) anche nel momento in cui non li si legge o non li si guarda, un brano musicale "esiste" veramente solo durante la sua esecuzione. Proprio questo tratto della musica generò forse il desiderio di "riprodurla" mediante strumenti che ne consentissero l'ascolto anche in assenza dei suoi esecutori diretti.

Da un punto di vista tecnico, questo divenne possibile alla fine dell'Ottocento con l'invenzione del fonografo, un cilindro di ottone ricoperto di stagnola e percorso da un lungo solco a spirale in cui era possibile incidere i suoni, brevettato da Thomas Edison nel 1878 e perfezionato alcuni anni dopo da Summer Tainter e Chichester Bell, ma soprattutto grazie all'invenzione del grammofono, approntato da Emile Berliner nel 1888. Nel grammofono di Berliner il cilindro in ottone era stato sostituito da un disco di gommalacca, meno ingombrante e soprattutto riproducibile in più copie. Così, se il fonografo, malgrado gli ambiziosi progetti del suo inventore, rimase un curioso congegno utilizzato da pochi intenditori, per di più per registrare solo voci umane, il secondo, grazie anche ai costi di produzione contenuti, in breve tempo entrò pressoché in tutte le case, diffondendovi veri e propri brani musicali.

L'intraprendenza e la lungimiranza di alcuni imprenditori disposti a investire sui nuovi prodotti determinarono il sorgere di una produzione industriale interamente dedicata alla realizzazione di dischi e apparecchi per il loro ascolto. La Columbia Phonograph Company, nata nel 1889, e la Berliner Phonograph Company, di poco posteriore, sono da considerarsi le prime case discografiche della storia. Prima di allora, l'industria musicale si era limitata alla stampa e alla commercializzazione degli spartiti, portata avanti in Italia da case editrici come la Ricordi o la Sonzogno.

L'ampliarsi dell'industria del disco aprì ben presto uno scenario nuovo: non si trattava più di vendere al pubblico la partitura di brani musicali già conosciuti, ascoltati dal vivo in teatro, ma di diffondere brani e generi musicali anche completamente inediti.

Gli artisti conobbero così nuovi canali di comunicazione con il loro pubblico e nuove sostanziose fonti di profitti, e le case discografiche, chiamate anche "etichette", dagli omonimi segni di riconoscimento che applicavano sui dischi, diventarono gradualmente padrone del mercato, spesso sovrapponendo i loro interessi economici alle reali richieste artistiche e culturali. L'avvento del disco finì per cambiare anche le modalità sociali di fruizione della musica. Se da un lato aumentò il numero degli ascoltatori, permettendo, attraverso le riproduzioni, la divulgazione di grandi opere che prima erano appannaggio di una ristretta èlite, dall'altro lato finì per banalizzare in qualche modo l'ascolto, poichè la musica "a portata di mano", di cui si può godere distrattamente, immersi in altre occupazioni quotidiane, non può che appiattire il gusto e la sensibilità dei fruitori. 




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